Chiquinho di Baltasar Lopes


Baltasar Lopes, Chiquinho (1947), traduzione dal portoghese di Vincenzo Barca, Edizioni Lavoro, Roma 2008, pp. 192-194.

Il narratore e protagonista della storia è Chiquinho, abitante di Capo Verde, un arcipelago di dieci isole al largo delle coste africane, che all’epoca delle vicende narrate, durante la prima metà del Novecento, sono ancora una colonia del Portogallo. 

Mi chiese quali fossero i miei progetti di vita. Non Seppi cosa rispondergli. L’unica via che mi si apriva davanti era quella del maestro di scuola. Anche Joca Pires faceva il maestro a Santo Antão. Era il destino di chi usciva dal Liceo. Andrezinho, come maestro, avrebbe avuto senz’altro cattive note di giudizio alla fine dell’anno. Doveva essere un curioso spettacolo, una lezione dell’Erudito. L’abbiccì sarebbe stato soverchiato da prediche di cui i bambini non avrebbero capito molto. Io avevo presentato i documenti per il concorso. Mia madre incoraggiava quell’ambizione. Se solo fossi riuscito a restare a Caleijão! Sarebbe stato bellissimo vedere un ragazzo della vallata dare lezioni in un’aula di scuola. António Manuel, dal 102 di Second South Street, sarebbe stato orgoglioso dei risultati dell’istruzione del figlio. Io mi lasciavo manovrare, non avevo una volontà mia, non sapevo dove dirigere con sicurezza i miei passi. La vita dei campi non mi offriva alcuna possibilità. Avrei voluto sposare Nuninha, e fare della nostra casa una dimora di artisti. Mi sarei impegnato per avvicinarla alla cultura: avrei studiato il violino, e lei sarebbe diventata pianista. Le nostre serate sarebbero state ricche di momenti di elevata spiritualità. Io al violino, Nuninha al piano. Sarebbe stata una pianista appassionata, con i suoi nervi in tumulto. Progettai la nostra casa sulla collina di Horta Nova. Ampie finestre spalancate sul mare a nord. Dalla parte della montagna, il nostro rifugio, perché nessuno venisse a turbare il sogno artistico delle nostre giornate. Avevo delle riviste francesi sull’arte e gli stili della decorazione. Un apparecchio radio, nella stanza d’ingresso, ci avrebbe sintonizzati sulla «melodia del mondo». L’energia per la radio e per la luce l’avremmo presa da una turbina a vento. E poi, un salone per le lezioni di musica. Era necessario sfruttare la vocazione musicale della nostra gente. I violinisti e i chitarristi avrebbero studiato il solfeggio, come base per l’interpretazione delle loro mornas. Per le danze e le musiche delle isole di Sotavento, gruppi di cimboa e percussioni. 
Mio zio ha accolse senza entusiasmo la notizia del mio concorso a maestro di scuola. 
«Per un ragazzo come te, nel fiore degli anni, è quasi un suicidio». 
«Se non mi piace, lo lascio, non ci penso due volte». 
«Non sarà così. Ti abituerai a ricevere il foglio-paga alla fine del mese e non ci penserai più. E così passeranno gli anni, a sopportare, per una miseria, scocciature di ogni sorta».
«Ma non posso rimanere qui a scroccare il pane ai miei».
Lo zio si spazientiva: 
«Molla tutto! Vattene in Guinea, in Angola, in Brasile, dove diavolo ti pare!… Ma non restare qui. Qui l’unica cosa che farai e metterti a bere… Questa vita è come il cloroformio. Alla fine ogni aspirazione si dilegua. E l’alcol è lì ad aspettarti… guarda me… acquavite e donne… Non c’è altro da fare e da pensare, è chiaro che bevo e faccio figli». 
Zio era così lucido, in quel modo impietoso di giudicare se stesso. Mi disse di nuovo del suo dispiacere di non aver seguito la strada di mio padre. Partire per l’America per lavorare nelle filature di cotone. O su un battello-faro o su una chiatta. Sarebbe stato una bestia da soma a lavorare. Un black portuguese disposto a ogni mestiere. Ma avrebbe avuto un mondo palpitante intorno. Biblioteche intere di libri da leggere. Conferenze da ascoltare. Immagini da assorbire. Niente avrebbe ostacolato la sua sete di sapere e di migliorarsi. L’anonimo spettatore della vita americana avrebbe disciplinato tutto quel mondo. E invece era ridotto a vivere tra montagne e campi aridi, senza una goccia di pioggia e invasi dalle cavallette.
«Quelle figlie di buona donna, vestite col frac…».
Gli chiesi perché non provava emigrare. Ancora non era vecchio, a poco più di quarant’anni aveva larghe riserve di vitalità. Molti erano partiti più anziani. 
«Sono fregato ormai… E con questa sfilza di figli dietro…». 
Quello stesso giorno, appena fu notte, lo zio si prese una sbronza micidiale. Manuel Cais e nhô Roberto Tomásialo riportarono a casa. Li trattenne ancora un momento sulla porta per raccontargli un qualche episodio di storia romana, con citazioni di Tito Livio in latino. Le sue sbornie prendevano spesso questa piega colta. La sua memoria tenace resisteva anche al grog. Poi cadde come un morto sul letto, sporcandosi le mutande coi propri bisogni. Mia madre, con una tazza di caffè forte in mano, ricacciava indietro le lacrime. 
Mio Dio, e se fossi diventato come zio Joca?

Chiquinho di Lopes è pubblicato in italiano nella traduzione di Vincenzo Barca da Edizioni Lavoro.

UN BRANO TRATTO DA QUESTO LIBRO È DA LEGGERE AD ALTA VOCE IN CLASSE PER L’ATTIVITÀ n° 5 DEL KIT DIDATTICO PER IL SECONDO BIENNIO E IL QUINTO ANNO DELLA SECONDARIA DI II GRADO.