Marcela Serrano, L’albergo delle donne tristi (1997), trad. di Simona Geroldi, Feltrinelli 2001.
La storia è ambientata su un’isoletta dell’arcipelago di Chloé, nel Sud del Cile, in un albergo gestito da una psichiatra, Elena, che ha voluto realizzare una struttura per aiutare quelle donne che hanno bisogno di superare momenti difficili, di ritrovare loro stesse, di liberarsi da una dipendenza, da un dolore, da una responsabilità indesiderata. Il brano che segue, che possiamo idealmente intitolare In gruppo, per parlare, è ambientato nella sala comune dell’albergo, dove le donne si trovano alla sera per raccontarsi le loro storie. Le protagoniste sono donne colte e benestanti, capaci di parlare di sé e di ascoltarsi a vicenda con attenzione e con rispetto reciproco.
La bellezza del suo viso è indiscutibile: quella sera, distesa sul tappeto nella saletta comune, con il digestivo di albicocche in mano e i lunghi capelli scarmigliati, Angelita si racconta.
“La cosa peggiore è che non sono né carne né pesce e non riesco bene a distinguere quale sia il mio ambiente. Non sono una di voi. Non so a che categoria appartengo.” Lo dice con delicatezza, guardando una dopo l’altra le sue compagne di appartamento.
La stanza a poco a poco si è riempita di un fumo denso, spesso. Ogni volta che la conversazione tocca temi scottanti, tutt’e quattro cominciano a fumare come ciminiere…
“È l’istinto della donna di un tempo che cavalca in mezzo a due cavalli e rimane in centro, senza un’identità definita. Non osa accelerare, per ragioni quasi ancestrali, ma intuisce che frenando non arriverà da nessuna parte,” mormora Costanza, vestita in grigio chiaro. È seduta al tavolo, con la testa abbandonata su un braccio.
“Io ho l’impressione,” dice Toña, “che le donne del popolo abbiano risolto meglio la questione, che siano andate più avanti rispetto alle borghesi. Semplicemente, non si lasciano abbindolare. Non so quanto consciamente, sta di fatto che hanno una buona padronanza di sé, hanno imparato dalla vita a cavarsela di fronte a qualsiasi difficoltà. Prendete Aurora, per esempio.” Toña è seduta per terra con le gambe incrociate e a Floreana, vuoi per la posizione, vuoi per il trucco pesante, ricorda un capo indiano. “A me pare che Aurora sia all’avanguardia rispetto ad Angelita.”
“Questo è un discorso che meriterebbe di essere approfondito,” interviene Costanza.
“E tu come sei arrivata qui?” chiede Floreana ad Angelita per non perdere il filo del discorso.
“Me l’ha suggerito la mia psicoanalista. Quando sono arrivata, mi guardavate tutte come una matta da legare, me ne sono accorta.”
“Ovvio! Tutte abbiamo pensato: cosa ci fa in un posto come questo una donna così bella ed elegante? Che razza di problema potrà mai avere?” Toña fa l’imitazione della classica conformista.
“Il mio problema è che mi sono sempre piaciuti uomini con una cattiva reputazione ho finito per sposarne uno,” replica Angelita sorridendo. “Era bello come il sole, un vero Adone. Il suo profumo di pulito mi faceva impazzire. Mi sono data a lui con totale dedizione. E lui riteneva che la mia bellezza (vi prego, non prendetemi per vanitosa, vi riferisco le sue parole) fosse la sola spiegazione del mio passaggio sulla Terra, l’unica.”
“E tu cosa pensavi?” chiede Costanza in tono un po’ aggressivo. “Non ti rendevi conto che la bellezza è passeggera?”
“No, non pensavo a niente, sapevo solo che lui era la mia ragione di vita. Non mi sarebbe mai venuto in mente di studiare o cercarmi un lavoro. A che scopo? Avevamo un sacco di soldi, vivevamo in una bella casa e avevamo una tenuta a Paine. Viaggiavamo in continuazione, eravamo invitati a tutte le feste. Lui beveva molto, faceva il galante con le donne, ma la cosa mi divertiva, non avrei mai pensato che potesse nuocermi, anche se tutti, e in fondo anch’io, sapevamo che era un gran figlio di buona donna.”
“Un po’ superficiale…” commenta Toña, ma la sua osservazione tradisce un’indulgenza insolita in lei.
“Continua, Angelita,” dice Floreana.
“Abbiamo voluto dei figli subito, appena sposati, tre figli in tre anni. Non voglio annoiarti con la mia storia,” guarda Floreana come per scusarsi, “ma tra l’alcol, il gioco e il suo lavoro alla tenuta, cominciai a vederlo sempre più di rado, mentre lui iniziava a stancarsi di me. C’è da dire, poveretto, che io ero diventata veramente una noia.”
“Come fa una a pensare di essere noiosa? Forse non è una cosa tanto facile da stabilire!”
“Eh no, cara Costanza, era evidente! Sono stata allevata dalle suore, tedesche per di più, e nella mia testa il male non esisteva, diavoli o demoni erano solo personaggi dei libri, lontani anni luce dal mio mondo. Cercavo il lato buono in tutte le cose e, grazie al mio candore, lo trovavo sempre. Ma quell’uomo mi combinò una vigliaccata dietro l’altra, così grosse che anche una tonta come me alla fine arrivò a ribellarsi! Gliene ho perdonate tante, ve lo confesso. Ma un bel giorno non ho retto più.”
“Sei un vero modello di autostima!” commentò Toña.
“Purtroppo non sono come le donne che ho conosciuto qui. Non sapevo neanche che esistesse, l’autostima. Conoscevo solo il terrore di rimanere senza di lui. Terrore puro. Preferivo qualsiasi umiliazione all’abbandono. Non potevo prescindere da lui, è molto semplice…”
“Senti che novità!” esclama Costanza.
“Hai ragione,” le risponde Angelita. “E non osavo raccontare a nessuno il mio dolore, né chiedere un consiglio. Tutte quelle associazioni di solidarietà tra donne di cui ci parla Elena, per me allora erano mondi sconosciuti. Non ho mai avuto molte amiche, non so perché, ma alle donne non sono mai piaciuta molto…”
“Tutta invidia, oca!”
“D’accordo. Gli uomini non mi prendevano sul serio… poi continuavano a piacermi i mascalzoni, così, per consolarmi, mi buttai in un paio di relazioni che alla fine si sono dimostrate il rimedio peggiore che potessi scegliere. Esperienze orribili, davvero.”
“Sei ancora sposata con quell’uomo?”
“Con Fernando? No, mi sono separata da lui cinque anni fa e da allora mi sono sentita persa. Gli uomini scappavano via oppure mi si gettavano ai piedi senza pudore, perfino gli amici di Fernando. Nel mio ambiente ero diventata la ‘Separata’ con la esse maiuscola.”
“Proprio com’è successo a me! In certi ambienti è davvero difficile essere una donna separata,” si infiamma Costanza.
“E io ero così schizofrenica che andavo a letto con gli uomini solo nella fase della conquista, poi, anche se continuavano a piacermi, non riuscivo più a eccitarmi.”
“Eri una narcisista.”
“Non so, Toña, non me ne intendo di psicologia, chiamala come ti pare… per me era pura follia. E, naturalmente, quelli mi lasciavano quando cominciavano a sospettare che fossi frigida. Andavo avanti senza uno scopo. Fino a che un’anima buona, una compagna di liceo incontrata per caso su un aereo, non mi consigliò di andare da uno psicoanalista. Se prima di allora mi avessero parlato di psicoterapia, me la sarei data a gambe. Mi convinsi ad andarci per una volta, tanto per parlare con qualcuno che non mi avrebbe compatito, tutto qui…”
“E invece hai continuato, ovviamente,” aggiunge Floreana.
“Già. E così è cominciato il percorso che mi ha portato qui. Quando la mia analista decise di lavorare a fondo sul problema della mia identità (praticamente inesistente, sosteneva, figuratevi un po’), pensai che l’unico modo per sopportare il passare dei giorni fosse dormendoli, e cominciai a non alzarmi più dal letto.”
“In altre parole, eri caduta in piena depressione.”
“Così aveva detto l’analista.” Si passa una mano tra i capelli. “Io non me ne ero resa conto e la parola mi suonò indecorosa. Fu allora che lei scrisse a Elena… ed Elena mi ha accettato.”
“Come ospite”, precisa Toña. “Perché devi sapere, Floreana, che nell’Albergo non si è né clienti né pazienti; siamo tutte ospiti.”
“È una bella parola,” dice Floreana. “Ma tornando a te, Angelita, dove hai trovato il coraggio di lasciare tuo marito?”
“Fu nel periodo in cui caddi in crisi, come essere umano prima ancora che come moglie. Vuoi che te ne parli?”
“Sì, nei minimi dettagli.”
L’albergo delle donne tristi di Marcela Serrano nella traduzione di Simona Geroldi è pubblicato da Feltrinelli.
UN BRANO TRATTO DA QUESTO LIBRO È DA LEGGERE AD ALTA VOCE IN CLASSE PER L’ATTIVITÀ n° 6 DEL KIT DIDATTICO PER IL SECONDO BIENNIO E IL QUINTO ANNO DELLA SECONDARIA DI II GRADO.

