Tempi stretti di Ottiero Ottieri


Ottiero Ottieri, Tempi stretti, Torino, Einaudi, 1964, pp. 30-31.


Emma è la protagonista del romanzo Tempi stretti di Ottiero Ottieri, uno dei maggiori autori della letteratura industriale italiana del Novecento. 

Emma lavorava in fabbrica, in mezzo agli altri, come da sola. Non le nascevano amicizie intorno. Dentro la sua officina il rumore le impediva di parlare, a meno che non strillasse. Lo stabilimento era assai grande; si divideva in molti edifici bassi, fughe di capannoni, e occupava alcune strade, da formare un quartiere estremo della città. Questo non aiutava a conoscere la gente: entravano per le lontane portinerie, come se ogni gruppo si perdesse in uno stabilimento diverso. 

Emma ogni mattina si ritrovava seduta davanti alla sua macchina, in fila con le altre. Stavano strette; dietro si ammassavano altre macchine utensili del reparto, uomini e donne; davanti c’era una corsia e la continuazione dell’officina a perdita d’occhio. Metteva un pezzo nell’attrezzo, azionava la leva, l’operazione si compiva in pochi secondi. Un altro pezzo. Così seduta passava la sua giornata. Intorno l’officina rombava col suo rumore compatto, su cui il tum tum di una grande pressa lontana batteva come un passo cadenzato, come un cuore affannato. Una pressa leggera si inseriva con un tan tan tan più acuto e frequente. Nei primi tempi Emma fu eccitata dal rumore; poi intontita; alla fine vi fece l’abitudine, diventando un po’ sorda, di orecchie, di corpo e di anima. Aveva assorbito il rumore come una spugna piena. Per lei fu molto peggio abituarsi al metallo e al lubrificante: le mani vicino alla macchina le sembravano di ricotta e avevano paura dell’utensile. Questa paura non scompariva mai.

Né prima né dopo capì che cosa accadesse intorno a sé nella distesa di macchine, attraverso la bassa selva dei reparti. Certo nessuno glielo spiegò mai: l’avevano portata al suo posto di peso. Dopo alcune settimane, oltre al suo conosceva qualche altro angolo, ma per caso. Ogni macchina utensile veniva alimentata con un cavo elettrico pendente dal soffitto: quelle liane ancora di più imbrogliavano la vista, insieme all’apparente confusione della sala, oscuravano un cielo a sega e l’aria già tenebrosa. Del resto molte operaie, sedute sul seggiolino, si sentivano chiuse dopo anni in mezzo a un bosco aggrovigliato dove ognuno bada a se stesso o al massimo ai propri vicini. Benché ci rimanessero ferme otto nove o dieci ore al giorno – per gli straordinari – correvano sempre: avevano i minuti contati. La mattina si precipitavano al posto, timbrata la cartolina. La sera scappavano. Certe operaie anziane non avrebbero saputo raccontare ciò che vedevano nel tragitto dagli spogliatoi ai loro posti, ignorando il nome delle macchine utensili distanti dieci metri dalla loro. Durante il giorno se ne interessavano meno che mai: a che serviva? Questo era anche un modo, in quella fabbrica, di avere la coscienza tranquilla, poiché era ritenuto un merito non vedere, non sapere. Emma imitò le altre.

(Il romanzo Tempi stretti di Ottieri è ripubblicato da Hacca Edizioni).

UN BRANO TRATTO DA QUESTO LIBRO È DA LEGGERE AD ALTA VOCE IN CLASSE PER L’ATTIVITÀ n°2 DEL KIT DIDATTICO PER IL SECONDO BIENNIO E IL QUINTO ANNO DELLA SECONDARIA DI II GRADO.