Capriole sotto il temporale di Katherine Rundell

Katherine Rundell, Capriole sotto il temporale, trad. it. di Mara Pace, Rizzoli, Milano 2019, pp. 33-39.

Will, abbreviazione di Wilhelmina, è una ragazza inglese di dodici anni. Vive in una fattoria in Zimbabwe, nell’Africa meridionale, insieme al padre William e al suo amico Simon. Will conduce una vita libera, a stretto contatto con la natura. Per le sue abilità di cavallerizza, Will si è meritata il soprannome di Saltarupe. 
Un giorno alcuni agricoltori della zona si presentano alla fattoria per parlare con il padre di Will ed esporgli le loro lamentele circa il comportamento della ragazza. Sono accompagnati dal capitano Browne, proprietario della fattoria. Fu solo quando la vide minacciata, che Will capì quanto teneva alla sua vita da Saltarupe. 

Tutto ebbe inizio tre giorni dopo che avevano acceso il fuoco sotto la casa sull’albero, quando nel cortile della fattoria arrivò un convoglio di macchine. Era inaudito. Nessuno faceva mai visita al capitano. Si diceva che amasse starsene da solo, tra i vecchi muri della casa cadente. I suoi cani meticci scoreggiavano sempre attorno al tavolino da tè. Eppure quel giorno cinque agricoltori scesero dalle loro cinque macchine, scacciando i cani che si affollavano attorno alle loro gambe. Spiegarono al padrone di casa la ragione di quella visita. 
Il capitano Browne, tristemente divertito, suonò il campanaccio. Sopra c’era scritto, inciso nel bronzo: “Personale della casa”.
«Desidera, capo?» Apparve Lazarus, a piedi nudi. Aveva i bottoni della camicia allacciati storti; quando non c’era nessuno nei paraggi tutti gli uomini, incluso William Silver, lavoravano a petto nudo.
«Ah, Lazarus.» Il capitano Browne cercò un fazzoletto senza farsi notare. Usava il campanaccio solo quando erano presenti altri agricoltori, e sulla mano gli era rimasto almeno un anno di polvere. «Bene. Vai a chiamare Will, per favore, Lazarus.» Vedendo che lui esitava, aggiunse: «Tutti e due i nostri Will. Presto».
William arrivò per primo, trafelato, con uno sguardo circospetto ma educato, e un vassoio di birre. Il capitano sorrise sotto i baffi, senza farsi notare. «Will, pare che la tua giovane Saltarupe abbia sconfinato in tutte le fattorie nell’arco di trenta chilometri. I gentiluomini qui presenti dicono che la situazione ci è sfuggita di mano e che sta diventando una selvaggia.»
«Sconfinato?» William si morse l’interno delle guance per trattenere il sorriso. «Capisco. Devo parlarne con lei. Dovrebbe essere qui a momenti…» Gli uomini aspettarono in un semicerchio imbarazzato, con le birre in mano e un’espressione dubbiosa, finché non udirono una porta sbattere, i passi di corsa e alla fine ecco Will, che si lanciò tra le braccia del padre per baciargli il volto ruvido: non appena si accorse degli ospiti, però, si bloccò sui suoi passi con una gamba a mezz’aria.
Erano uomini con la pancia prominente, la pelle bruciata dal sole, i colli massicci; avevano modi rozzi, voci rauche e dita grasse. Dicevano di essere severi ma giusti. A volte erano solo severi, avrebbe voluto dire Will. Uno di loro – il più grasso, che indossava, tra l’altro, un Rolex – teneva per mano i due figli. Will si sentiva addosso gli occhi di tutti: stavano fissando i suoi calzoncini, vecchi jeans tagliati sporchi d’erba dietro; la lunga cicatrice sul ginocchio, quando era caduta da un albero dentro un cespuglio di acacia; i suoi piedi lunghi, le dita, le lunghe sopracciglia e la bocca larga. Abbassò lo sguardo.
«E così questa è la figlia di Lilibet, William?»
L’uomo grasso aveva una voce bassa e rauca. Come tutti i coltivatori di tabacco. Era il suono delle cinquanta sigarette al giorno. Voci color ocra, diceva William. «È il ritratto sputato di sua madre. Non è vero, Wilhelmina?»
«Oh» disse Will. «Ehm.» Ci provò di nuovo. «Ja… Io…»
Di meglio non poteva fare, prima di tutto perché aveva un’idea molto vaga di sua madre, nessun vero ricordo, e poi perché mancavano gli specchi nella fattoria. E comunque non aveva voglia di parlare; così rimase immobile, senza fiato. Sarebbe stato meglio non presentarsi affatto al richiamo del capitano; rimanere con Simon e Peter, a giocare a strega comanda color o a una versione improvvisata di polo, con scope rubate e limoni acerbi strappati dai rami con i denti. Ma per quello era tardi ormai…
L’uomo inarcò un sopracciglio. «Come dicevo, Charles. William. Non può stare qui. Non ho intenzione di tollerare altre intrusioni, William. E soprattutto, ja, la ragazza ha bisogno di stare con i suoi simili.» Era il codice degli agricoltori: “Ragazze bianche con ragazze bianche”.
«Che cosa?» Will si accigliò, tanto che la fronte sembrò scenderle sul naso. Ma che cosa stavano dicendo? Era tutta ignoranza; quel genere di idee preconfezionate che non appartenevano alla fattoria, né al suo mondo. S’impose di essere gentile, ma era arrabbiata. «Sto bene così, davvero, grazie mille, signore. Davvero, davvero, sul serio, sto bene.» Non riuscì a trattenere uno spruzzo di saliva pronunciando quell’ultimo “bene”. Gli uomini fecero un passo indietro, pulendosi il volto con la mano.
Sorrisero, con uno sforzo evidente. Sul volto avevano espressioni imbarazzate da oh-che-dolce-bambina; li trovava ridicoli. Il portavoce, che era Adam Madison, il maggior proprietario terriero di tutta Mutare, sembrava quasi addolorato.
«Ja, mia cara. Sono certo che la pensi così, sai?» E continuò a parlare come se lei non ci fosse, cosa che Will detestava. «Ma guardala, William. Non ha nulla di ciò che serve a una femmina. Le manca…» 
E sebbene Will sapesse che le ragazze dello Zimbabwe non interrompono mai, per nessuna ragione, le persone anziane, non riuscì a trattenersi: era arrabbiata ma allo stesso tempo sollevata, perché se erano preoccupati che le mancasse qualcosa, allora poteva dimostrare.
«Non è vero… non mi manca nulla, signore. Non mi manca nulla. Giusto, papà? Ho dieci galline bantam che fanno le uova ogni giorno in tutta la casa; ci sono i ragazzi, Simon e Peter e anche Penga e Learnmore, ma soprattutto Simon. E c’è Kezia, la mia scimmia, e Shumba, che è il mio cavallo. E ho più frutta di quanta ne riesco a mangiare, e ci sono i libri, i disegni, e il capitano ha detto che posso dipingere gli uccelli sul soffitto se trovo una scala, e c’è l’albero di mango che ho chiamato Marmaduke, e poi…» Era un segreto tra lei e Simon che avevano giurato di non rivelare, ma le uscì di bocca lo stesso con parole farfugliate. «Nel granaio ho una tana per tre piccole procavie: i conigli delle rocce, ja? E darò loro da mangiare uva sultanina, naajies e sadza e le abituerò a starmi sedute sulla spalla.» A Will parve di aver detto tutto e fu sicura della vittoria, perché dopo che aveva descritto tanto bene il suo mondo, nessuno poteva contestarlo.
William abbassò lo sguardo su sua figlia e cercò di non sorridere. 

UN BRANO TRATTO DA QUESTO LIBRO È DA LEGGERE AD ALTA VOCE IN CLASSE PER L’ATTIVITÀ n° 5 DEL KIT DIDATTICO DELLA SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO.