Francesco Piccolo, Il lavoro che avrebbe voluto fare, in Storie di primogeniti e di figli unici, Torino, Einaudi, 2012.
Il racconto intitolato Il lavoro che avrebbe voluto fare è tratto dal libro Storie di primogeniti e di figli unici dello scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo. È la storia di un ragazzo che viene ritenuto un fannullone, poiché cerca in ogni modo di evitare i lavoretti di casa.
Gli dicevano sempre che era uno sfaticato. Sei uno sfaticato, sei proprio uno sfaticato. La madre, specialmente: lo vedi che sei uno sfaticato?
Litigavano tutti i giorni all’ora di pranzo. Perché gli chiedeva di apparecchiare, gli diceva. E quando glielo diceva stava già facendo un’altra cosa, una cosa importante, era impegnato, non poteva darle retta. Non poteva apparecchiare. Lei si arrabbiava. Lo vedi che ho ragione, che sei uno sfaticato?
Questo. Tutti i giorni all’ora di pranzo. Allora la madre lo chiedeva a un altro dei figli. Anche se era compito di quello sfaticato. Ma lui ora non ce la faceva più, questa era la verità. Lo aveva fatto per lungo tempo, secondo i patti. Aveva apparecchiato la tavola tutti i giorni, con la cura e criteri che gli aveva insegnato lei. […] Ogni movimento era ordinato ed elegante, anche quando era diventato meccanico per l’abitudine. L’eleganza era dettata da una logica. Ed era pure bella la tavola apparecchiata a quel modo. Però. Però, quando aveva finito, la madre urlava: “A tavolaaa!” ed era assalito dal padre, dai fratelli che rumorosamente spostavano le sedie, spiegavano i tovaglioli facendo saltare il coltello – ogni volta, ogni volta, mai nessuno che togliesse il coltello prima di prendere il tovagliolo, mai, lo tiravano da sotto e il coltello saltava e spesso cadeva a terra; riempivano i bicchieri fino all’orlo, facendo cadere chiazze d’acqua o piccole gocce di vino rosso e non rimettevano le bottiglie dove si era già formato il cerchio segnato dal fondo, mai, mai, ogni volta facevano cerchi nuovi; con i gomiti, poi, increspavano la tovaglia e per il fastidio la tiravano chi da una parte chi dall’altra. […]
Venti secondi dopo averlo terminato, il suo lavoro era sparito e nessuno ne teneva conto. Perché era proprio così che doveva andare. E il giorno dopo avrebbe dovuto ricominciare da capo. Con cura ed eleganza.
Così, un giorno, poco prima dell’ora in cui la madre lo avrebbe chiamato ad apparecchiare la tavola, si mise a fare un’altra cosa. E quando la madre lo chiamò rispose che era impegnato e non poteva apparecchiare. Da quel giorno, fece così tutti i giorni. Lo vedi che ho ragione, urlava la madre, lo vedi che sei uno sfaticato? Ma del resto glielo aveva sempre detto, fin da piccolo, e sapeva che avrebbe continuato a dirlo. Quindi, non è che ci facesse più caso. Poi, un pomeriggio che gli era sembrato un pomeriggio qualsiasi, scoprì di non essere uno sfaticato.
Accadde una cosa piccola, in un corridoio stretto di un ospedale appena rimesso a nuovo […]. Era un corridoio bianco, appena riverniciato, con quell’odore che prende allo stomaco, con porte tutte da un lato e finestre dall’altro. L’odore di vernice dava al corridoio un aspetto più candido, se non fosse stato per minuscole macchie bianche, che chiazzavano i bordi delle porte grigie. E se non fosse stato per un cavo elettrico penzolante. Quei cavi che rimangono fuori dalle combinazioni senza un motivo apparente.
Le porte macchiate non importano. Il cavo sì. Quello importa. […] E tutti quelli che lo vedevano, i parenti o gli amici dei ricoverati, i ricoverati stessi che in barella e con la flebo o la maschera d’ossigeno andavano in sala operatoria o nel reparto di radiologia – anche loro lo vedevano, e anzi loro di più perché spinti su una barella, per forza di cose guardavano in alto – tutti, proprio tutti pensavano, anche solo per un attimo pensavano: “Bisognerebbe mettere a posto quel cavo”. […] Poi si sa, il tempo passa; e le giornate passavano, l’inserviente di reparto se lo scordava; […] Perché se pure dava nell’occhio quel cavo penzolante nel corridoio appena riverniciato, non era poi una cosa importante, o impellente. Si poteva lasciar perdere, insomma. […]
Appena fuori dal corridoio, vide una signora con un camice azzurro che puliva i vetri di una finestra. Accanto, teneva una scala. La scala serviva per pulire i vetri più in alto. Chiese la scala alla signora. Gliela riporto subito, disse. La aprì sotto il cavo penzolante. Salì. All’inizio con cautela, poi, quando vide che la scala teneva, con decisione. Prese il cavo. Non se la sentiva di sradicarlo, aveva paura che potesse succedere qualcosa. Allora lo infilò nello spazio del passante che teneva gli altri fili lungo il muro. Così. Forzò un po’. Tirò. Il cavo non penzolava più. Scese e riportò la scala alla signora. Grazie, disse.
Ora non è che pensava che fosse una cosa definitiva – lo era abbastanza, voleva dire, non del tutto – del resto lo sapeva che non ce n’erano di cose del tutto definitive. Però.
Però sarebbe durato, ecco. Forse fino alla prossima rimozione dei cavi, forse fino alla prossima riverniciatura del corridoio. Dell’ospedale, anzi. Probabilmente. Quel piccolo lavoro – questione di un attimo: era salito sulla scala, aveva infilato il cavo nel passante e aveva tirato – sarebbe durato anni. Anni in cui nessuno sguardo in quel corridoio sarebbe stato infastidito da un cavo penzolante. Anni. Gli sembrava di aver fatto una buona cosa. Gli sembrava di non essere uno sfaticato e non gli importava se non lo era più o se non lo era mai stato.
Per continuare la lettura è possibile acquistare il libro Storie di primogeniti e di figli unici dell’editore Einaudi.
UN BRANO TRATTO DA QUESTO LIBRO È DA LEGGERE AD ALTA VOCE IN CLASSE PER L’ATTIVITÀ PER L’ATTIVITÀ n° 10 DEL KIT DIDATTICO PER IL BIENNIO DELLA SECONDARIA DI II GRADO E PER LA n° 9 DEL KIT DIDATTICO PER IL SECONDO BIENNIO E IL QUINTO ANNO DELLA SECONDARIA DI II GRADO.

