Il paese delle maree di Amitav Gosh

Amitav Ghosh, Il paese delle maree (2004), trad. Anna Nadotti, Neri Pozza, Vicenza 2019, pp. 145-149.

Il paese delle maree, un romanzo dello scrittore indiano Amitav Ghosh (Calcutta, 1956), uscito per la prima volta nel 2004 e pubblicato un anno dopo anche in Italia nella traduzione di Anna Nadotti, racconta le vicende di Piya, biologa marina di origini bengalesi ma cresciuta a Cunning, negli Stati Uniti, di Kanai, un interprete e traduttore istantaneo originario di Calcutta, e di Fokir, un povero pescatore bengalese. Le vite di questi tre personaggi s’incrociano nei Sundarban, un avventuroso territorio costituito prevalentemente da foreste di mangrovie e situato sulle coste del golfo del Bengala​​, dove i confini tra acqua dolce e acqua salata, fiumi e mare, terra e acqua vengono quotidianamente stravolti dall’incessante ritmo delle maree. 

Nel brano che segue è possibile approfondire la conoscenza di Piya, che giunta in questo dedalo di fiumi e foreste per esplorare le acque e trovare qualche specie rara di mammifero marino, fa una piccola scoperta sui delfini dell’Irrawaddy (detti anche “orcelle asiatiche”).

Nel pomeriggio, quando l’acqua cominciò a salire, Piya notò che si vedevano sempre meno delfini. Osservazione confermata da un’occhiata ai fogli dei dati: si sarebbe detto che gli animali avessero cominciato a disperdersi con il cambiamento della marea.

Nelle prime ore del giorno l’andamento del lavoro di Piya era stato dettato dalla convinzione che si trattasse di un gruppo di delfini migranti che si sarebbero mossi da un momento all’altro. Ma ora cominciava a dubitarne: gli animali non le avevano dato l’impressione di essere diretti in nessun luogo particolare. Al contrario, si era via via convinta che si fossero raggruppati lì in attesa che il livello dell’acqua cominciasse a salire. Ma anche questo non aveva senso, si disse, contraddiceva ciò che sapeva di quegli animali. 
Esistono due varietà di orcelle: una predilige le acque salate della costa, mentre l’altra ama i fiumi e l’acqua dolce. La differenza tra le due non è anatomica, riguarda solo il tipo di habitat. Delle due popolazioni, quella costiera è di gran lunga la più numerosa. Si calcola che nelle acque dell’Asia meridionale e in quelle a nord dell’Australia ne vivano varie migliaia di esemplari. Nei fiumi asiatici ne restano ormai solo poche centinaia. A Piya non risultava che l’orcella costiera indugiasse per ore nello stesso posto, sapeva anzi che era propensa a vagare liberamente lungo la riva. Le loro cugine d’acqua dolce invece sono più territoriali e assai meno gregarie. Nei periodi di grandi piogge, quando il livello dei fiumi s’innalza, li risalgono per lunghi tratti, inseguendo le loro prede su per gli affluenti e addirittura fino ai campi di riso allagati. Ma nei periodi di secca, quando i fiumi cominciano a prosciugarsi, fanno ritorno a determinati luoghi. Di solito pozze di acque profonde, create da ghiribizzi geologici lungo le sponde dei fiumi. In Cambogia, Piya aveva individuato popolazioni di orcelle in numerose pozze lungo il Mekong, da Phnom Penh ai confini del Laos. Aveva trovato gli stessi esemplari, che tornavano alle medesime pozze, anno dopo anno. Ma quando la stagione cambiava, quei delfini discendevano il fiume per centinaia di chilometri; in una sfortunata circostanza uno di loro aveva ridisceso l’intero tratto dal confine con il Laos solo per morire impigliato in un tramaglio nei pressi di Phnom Penh. 

Piya era venuta nei Sundarban convinta di trovare solo orcelle della varietà costiera: le sembrava logico, sapendo quanto sono salate le acque della regione. Ma ciò che aveva visto quel giorno la indusse a pensare di essersi sbagliata. Se quelle erano orcelle costiere, cosa ci facevano radunate in una pozza? Non era loro costume, solo le cugine si comportavano così. D’altra parte non potevano essere delfini di fiume. L’acqua era troppo salata. E comunque le orcelle di fiume non lasciano le loro pozze nel bel mezzo del giorno, ci passano l’intera stagione. Che tipo di animale era quello, e cosa significava quel bizzarro comportamento?
Mentre rimuginava su tali questioni le balenò in mente un’idea. Possibile che le orcelle dei Sundarban facessero ogni giorno ciò che le loro cugine del Mekong fanno una volta all’anno? Avevano forse trovato un modo del tutto nuovo di adattare il proprio comportamento all’ecologia delle maree? Possibile che avessero compresso i ritmi stagionali annuali delle loro parenti del Mekong per farli rientrare nel ciclo quotidiano delle maree?
Piya sapeva che, se fosse riuscita a verificare qualcosa di tutto ciò, avrebbe avuto un’ipotesi sorprendentemente elegante e funzionale. Qualcosa di bello, quale si trova di rado nella caotica molteplicità dei comportamenti dei mammiferi. Inoltre l’idea poteva avere implicazioni cruciali per la conservazione di quella specie a rischio: le misure protettive sarebbero state assai più efficaci se concentrate in determinate pozze e in specifici corridoi di transito. Ma se tale ipotesi dava delle risposte, altrettante ne poneva. Per esempio, quali sono i meccanismi fisiologici che armonizzano gli animali al flusso delle maree? Non i ritmi circadiani, ovviamente, dal momento che l’orario delle maree cambia ogni giorno. Cosa accade durante i monsoni, quando l’afflusso di acqua dolce aumenta e il tasso salino cambia? E ancora, il ciclo quotidiano di migrazione si inscrive nel palinsesto di un più lungo ritmo stagionale?

Piya ricordava una ricerca che aveva dimostrato che ci sono più specie ittiche nei Sundarban che nell’intero continente europeo. Tale proliferazione di vita acquatica era considerata il risultato della composizione insolitamente varia dell’acqua stessa. Le acque di fiume e di mare non si mescolano in parti uguali in quella parte del delta; al contrario si compenetrano reciprocamente creando centinaia di nicchie ecologiche diverse, con correnti di acqua dolci che scorrono sul fondo di certi canali, determinando variazioni di salinità torbidezza. Tali microambienti sono come mongolfiere sospese nell’acqua, ognuna con uno specifico schema di flusso. Essi cambiano costantemente posizione, a volte galleggiano al centro della corrente per essere poi ricondotti a riva dal vento, altre volte vengono trasportati in mare aperto, e altre ancora si spostano profondamente nell’interno. Ogni mongolfiera è un biosistema ricco di flora e fauna endemica, e mentre si sposta sulla superficie dell’acqua sfilze di predatori ne seguono la scia. Una simile proliferazione di ambienti spiega la nascita e la conservazione di un’impressionante varietà di forme di vita acquatiche, da coccodrilli giganti a pesci microscopici.
A questo punto Piya, che se ne stava seduta nella barca riflettendo su quell’insieme di connessioni e interrelazioni, dovette chiudere gli occhi, sopraffatta dall’universo di possibilità che tutt’a un tratto le si schiudeva nella mente. C’era così tanto da fare, così tante domande a cui dare risposta, così tante piste da seguire: avrebbe dovuto acquisire discrete conoscenze in ambiti disciplinari diversi: idraulica, ecologia dei sedimenti, chimica dell’acqua, climatologia; avrebbe dovuto fare censimenti stagionali della popolazione di orcelle; avrebbe dovuto mappare i corridoi di transito dei delfini, scovare delle borse di studio, chiedere permessi e licenze; una mole di lavoro praticamente senza limiti. Era stata mandata nei Sundarban per due settimane, per compiere una ricognizione circoscritta, con un budget ridotto all’osso, ma per affrontare tutti i problemi che le ronzavano in testa in quel momento ci sarebbero voluti anni, forse decenni. Poteva plausibilmente supporre di avere davanti a sé quindici o vent’anni di attività di ricerca sul campo, e il progetto che stava prendendo forma nella sua mente li avrebbe richiesti tutti, o forse di più: era il lavoro di un’intera vita.
Piya aveva spesso invidiato quei biologi che avevano trovato argomenti monumentali per le loro ricerche sul campo: Jane Goodall sulle montagne del Kenya, Helene Marsh nelle paludi del Queensland. Poco ambiziosa per temperamento, non aveva mai immaginato di potersi un giorno imbattere in qualcosa di simile. Invece c’era, era lì, e ci si era imbattuta accidentalmente, proprio quando le cose sembravano volgere al peggio. Ripensò alle scoperte leggendarie che l’avevano avvicinata alla scienza da bambina, e le più incredibili erano proprio quelle originate dalla normalità quotidiana: Archimede e la vasca, Newton e la mela. Non che il suo lavoro potesse in alcun modo essere paragonabile o simile, ma adesso se non altro sapeva in cosa consisteva, come succede che un’idea si faccia strada inaspettatamente nella nostra testa e in un attimo ci rendiamo conto che sarà l’impegno di tutta la vita.

Non aveva mai avuto grandi aspirazioni come scienziata. Pur amando i cetacei e sentendo con essi molte affinità, sapeva che non era solo per gli animali che faceva ciò che faceva. Come molti colleghi, aveva deciso di dedicarsi alla ricerca sul campo non solo per i suoi contenuti intellettuali ma anche per il tipo di vita che offriva: le consentiva infatti di stare per conto proprio, di non avere una residenza fissa, di vivere lontano dalle consuetudini, pur facendo parte di una comunità leale ma con legami flessibili. Ciò che ora aveva intuito non avrebbe cambiato niente; per la maggior parte sarebbe stata la solita sfacchinata: domande per borse di studio, ricerca di fondi e così via. Qualunque cosa ne fosse venuta alla fine, non avrebbe provocato un terremoto scientifico, lo sapeva. Eppure era stranamente gratificante il pensiero di avere risolto il proprio futuro, di sapere in anticipo cosa avrebbe fatto quell’anno e l’anno dopo e quello dopo ancora, chissà fino a quando. Certo, era vero che qualunque cosa ne fosse risultata non avrebbe rivoluzionato le conoscenze scientifiche, neppure una branca minore, ma era anche vero che se fosse riuscita a compiere un buon lavoro – anche solo su una parte di quella vasta materia – sarebbe stata una pagina di scienza descrittiva straordinariamente interessante. Poteva bastare come alibi per una vita, non avrebbe dovuto giustificarsi per come aveva passato il suo tempo su questa terra.

Il paese delle maree di Amitav Ghosh nella traduzione di Anna Nadotti è pubblicato da Neri Pozza.

N BRANO TRATTO DA QUESTO LIBRO È DA LEGGERE AD ALTA VOCE IN CLASSE PER L’ATTIVITÀ n° 7 DEL KIT DIDATTICO PER IL SECONDO BIENNIO E IL QUINTO ANNO DELLA SECONDARIA DI II GRADO.